sabato 9 settembre 2017

Ventitreesima domenica del TempoOrdinario



Una pagina evangelica troppe volte disattesa. Dobbiamo onestamente ammetterlo. Oggi, in questo tempo di esasperato individualismo, forse ancor più di ieri.
Eppure la vita cristiana non è forse il partecipare alla vita divina, a quella vita di comunione e di amore che è la vita stessa di Dio Trinità?
E la carità, come ci ricorda Paolo nella seconda lettura non è forse “la pienezza di tutta la Legge”?, l’unica cosa che “non fa alcun male al prossimo”, l’unico debito che val la pena di mantenere aperto? Certo, il vivere da cristiani non è altro che rispecchiare tra noi quella comunione d’amore che ci unisce a Dio stesso; è fare questo in tutte le situazioni della nostra esistenza.
Forse, parlando di carità, noi siamo abituati a pensare a quanto di bello e di buono si fa verso chi è nel bisogno: verso malati o anziani, verso i poveri e gli emarginati, i lontani e i missionari... Tutto ciò è molto buono e ha dato origine a forme di testimonianza di tale splendore e ricchezza da restarne stupiti e ammirati.
Tuttavia questo, pur lodevole, non sostituisce affatto quello che Gesù ci ha detto e lasciato come invito poche ore prima della sua morte: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35). Ed è chiaro, in queste parole, il riferimento a quell’amore non tanto esterno, bensì interno, dentro la comunità di cui si è parte, tra le persone che condividono quotidianamente la stessa fede nel Dio amore.
Proprio la qualità delle relazioni all'interno della comunità dei credenti, è il segno per eccellen­za della presenza del Signore nella storia degli uomini!
E’ il segno di una comunità che vive sul serio la fede cristiana e fa di questo modo di essere il primo annuncio, la prima ‘attività missionaria’, che testimonia a tutti – credenti e non – la concretezza e bellezza del cristianesimo. Se questo viene a mancare, anche tutto il resto, anche ogni iniziativa, pur bella e ben organizzata, lasciano il tempo che trovano; anzi spesso diventano ‘controtestimonianza’.
Ecco perché nel brano proposto oggi alla nostra meditazione, che è parte di un più vasto discorso sulla vita della comunità dei discepoli, Gesù ci vuole suggerire alcu­ne modalità operative per vivere concretamente tra noi la carità. Ci suggerisce uno stile che deve caratterizzare le nostre relazioni comunitarie e dei differenti livelli di intervento quando si verificano delle difficoltà all'interno della comunità creden­te.
Alla base di tutto sta uno stile di dialogo e di comunicazione: non è autentica una comunità cristiana solo per la sua operosità; sono essenziali e necessari il confron­to, la stima reciproca, il dialogo; non sono per nulla superflui né sono da ritenersi 'dati per scon­tati' (come tanti a volte dicono: ‘diamoci da fare e poche chiacchiere…’).
Solo quando c'è una previa comunicazione nel bene sarà poi possibile intervenire per correggere e migliorare: altrimenti, la reazione irritata, scontrosa, è quasi certa! E il testo ci indica anche i passi da attuare: prima si parla all'interessato; quindi, soltanto dopo, se ne può fare parola agli altri membri della comu­nità.
Siamo sicuri che sono i passi che solitamente percorriamo? A volte, capita!, che tutti sanno ma nessuno ha mai parlato con la persona coinvolta! E questa cosa come chiamarla se non mormorazione?
Se noi tutti, fossimo disposti a giocarci fino in fondo nelle relazioni, se avvertissimo maggiormente la necessità e la bellezza di poterci aiutare e sostenere reciprocamente nella correzione, sarebbe più facile anche sentire la presenza del Signore tra di noi!
Ma i suggerimenti non si fermano qui, nonostante l'apparenza: «Se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pub­blicano» (v. 17). Si verificasse davvero che una persona non ascolta l'invito di tutta una comunità, la proposta di Gesù è di fargli percepire 'sulla pelle' cosa significa non avere nulla in comune con il resto della comunità. E’ riconoscere che quella persona rifiuta di fatto la fraternità; e se pur considerata “separata” (come il pagano e il pubblicano) deve essere ancora amata. Ecco perché, dei cristiani autentici, non si fermano qui. C'è ancora una modalità, che san Benedetto nella sua Regola suggeriva: «…allora faccia ricorso alla terapia che è ancora più efficace: la preghiera sua e di tutti i suoi fratel­li, perché il Signore - cui tutto è possibile - operi la guarigione del fratello malato» (RB 29,2-5). Ed è importante che la preghiera giunga a questo punto del percorso: non all’inizio, saltando tutte le fasi pre­cedenti; rischierebbe di essere un alibi alla propria pigrizia relazionale... 
Siamo dunque tutti richiamati alla responsabilità di una vita di relazione positiva e costruttiva.
Ciò che distrugge la comunità sono i pregiudizi e giudizi, le mormorazioni e le parole vuote. Ciò che la edifica è invece il dialogo sincero, l’umile correzione fraterna, la fiducia reciproca.
In questo, come dice il profeta nella prima lettura, siamo chiamati ad essere sentinelle, capaci di saper riconoscere i momenti e i modi per intervenire a soccorso e in aiuto dei nostri fratelli.
È quella responsabilità di scioglie­re e legare che Gesù ci affida che altro non è che il prenderci cura delle relazioni personali, diventando sempre più capaci di sciogliere nodi e catene (i nodi delle incomprensioni, dei rancori, delle offese; le catene delle ingiustizie, dell’odio, della vendetta). Sciogliere per legare: curare le relazioni vuol dire creare legami profondi tra noi e tra noi e Gesù. Un lavoro da portare avanti senza sosta, con pazienza e umiltà, senza alcuna presunzione di essere migliori degli altri.
Allora veramente, “il Padre ci concederà ogni cosa, se prima ci saremo messi d’accordo tra noi…;  allora è certo che “dove due o tre saranno riuniti nel mio nome”, saranno capaci di questo amore autentico e sincero, allora “lì sono io in mezzo a loro”.

Nessun commento:

Posta un commento