martedì 31 ottobre 2017

Santi nascosti



I cristiani migliori, i più autentici e vivi, non si col­locano necessariamente, e neppure generalmente, tra i sapienti o tra le persone più abili. Né tra gli intellet­tuali, né tra gli uomini politici, né tra i detentori del potere o della ricchezza, né tra le «autorità sociali». Di conseguenza, la loro voce si fa sentire raramente nei crocicchi delle strade o sulla stampa, i loro atti non hanno, d'ordinario, risonanza e non tengono oc­cupata la gente. La loro vita è nascosta agli occhi del mondo, e se giungono a notorietà ciò avviene eccezio­nalmente, in una cerchia ristretta, o solo più tardi. Nel­la Chiesa stessa spesso essi passano quasi inosservati, e il cristiano in vena di criticare li ignorerà in buona fe­de, benché essi si trovino magari proprio accanto a lui. Molti santi non sono conosciuti che dopo la loro mor­te, e molti restano sconosciuti anche dopo la loro mor­te. Perfino quelli che ebbero un ruolo importante furo­no per la maggior parte misconosciuti e, nelle loro im­prese più belle, combattuti o abbandonati.
Sono nondimeno questi uomini, più di tutti gli altri, a far sì che la nostra terra non sia un inferno. Ora, la maggior parte di essi non si chiede affatto, anche ai nostri giorni, se la propria fede sia «adattata» o «effi­cace». A loro basta viverne di essa come della realtà stessa, la realtà sempre più attuale, e i frutti che ne de­rivano, anche se spesso nascosti, non sono per questo meno belli, né meno nutrienti. Qualunque sia lo stato del mondo, quei frutti ci saranno sempre necessari per conservarci o ridarci qualche speranza.
Si cercano profeti. Che curiosi profeti, se esistono, quelli di cui voi rivendicate i diritti, ed ai quali vorre­ste quasi fosse conferito uno statuto legale, un ricono­scimento pubblico, una patente! Mai ci furono tali profeti, se non falsi. Non temete di favorire una tale specie? Non pensate che essa proliferi già abbastan­za?... Quando sorgono dei veri profeti, le protezioni previste non le potete impiegare. Sappiate che sono degli uomini banditi, calunniati, umiliati; degli uomini che vengono accusati di tutti i crimini contro l'umani­tà; come il Giusto di Platone, sono scacciati e bollati con il marchio dell'infamia. Sappiate che questi uomi­ni mettono contro di sé il mondo intero, resistendo alle passioni popolari come ai capricci dei grandi, predi­cando delle verità inopportune, non dicendo agli uo­mini nulla di ciò che gli uomini desiderano sentirsi di­re, andando da soli contro corrente, disprezzando le idee che ci inebriano... Voi stessi, se li incontraste, non capireste in un primo momento il loro linguag­gio; sareste tentati di odiarli, o di guardarli dall'alto in basso, o di ritenerli troppo fuori tempo; oppure li riterreste al servizio dei vostri avversari, o li accusere­ste di fare stupidamente il loro gioco. A meno che, più semplicemente, vi riesca troppo difficile accorger­vi di loro.

H. de Lubac, Paradossi e nuovi paradossi, pp. 106-107.


venerdì 27 ottobre 2017

Trentesima domenica del Tempo ordinario



Una delle preoccupazioni del popolo d’Israele era di fare la volontà di Dio, in modo che la propria condotta fosse sempre gradita a Lui. Era perciò necessario sapere con grande precisione come comportarsi in tutte le circostanze, per non dimenticare qualcosa.
Ecco allora il moltiplicarsi di precetti: si era arrivati a 613 precetti da osservare e a 365 proibizioni negative. In questo cumulo di leggi e divieti, molti avvertivano l’esigenza di fissare una gerarchia di comandamenti, cercando di determinare il più grande, il primo tra tutti. Rimanevano tuttavia parecchie incertezze in questa ricerca e la discussione era aperta tra le varie scuole rabbiniche.
Il brano di oggi muove appunto da un dottore della Legge che vuole tentare Gesù su questo argomento, per metterlo ancora una volta alla prova.
Ma la questione circa cosa fosse più importante osservare, riguardava anche la prima comunità cristiana a cui Matteo scrive; riguarda anche noi oggi, che rischiamo di disperderci in una molteplicità di devozioni, pratiche, precetti, perdendo di vista l’essenziale, il cuore stesso della vita cristiana.
L’amore: è questo il ‘cuore’ di tutto. E Gesù lo ripropone con chiarezza, ricavando l’indicazione proprio dai testi dell’antico testamento, da quella molteplicità di precetti, ma arrivando anche ad evidenziarne il primato assoluto.
Amare Dio, amare il prossimo. Primo e secondo in ordine di presentazione, ma unico comandamento, inscindibile.
Uno “simile” all’altro, di pari valore, della stessa importanza. Strettamente collegati al punto che uno non può esistere senza l’altro, perché si tratta non di due, ma di un unico amore. L’amore di Dio senza quello del prossimo cade nel sentimentalismo; quello del prossimo senza l’amore di Dio scade in semplice filantropia e nel facile rischio della ricerca di interessi e gratificazioni. L’amore del prossimo è come uno specchio del nostro amore per Dio. Insieme si sostengono e ci sostengono nel realizzare la nostra vita.
Di più: “Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti”; è l’amore, nella sua totalità, ciò che dà senso, significato, orientamento a tutte le altre osservanze, tradizioni, precetti. Essi risultano come svuotati di senso, di contenuto e valore, se non vengono attuati nella luce e nella prospettiva dell’amore. L’amore di Dio e del prossimo sono come due ali che fanno volare tutta la Legge e la fanno volare in alto verso Dio.
Amare dunque con tutto noi stessi: corpo, mente, anima. Fare dell’amore il perno, il punto unificante di tutta la nostra vita. Un amore innanzitutto ricevuto gratuitamente (siamo amati per primi da Dio: “ricordati” – ammonisce l’antico testamento – di tutto quello che Dio ha fatto per te).
A sua volta questo amore è chiamato a riversarsi sul prossimo; e non dobbiamo pensare che si tratti solo del vicino, bensì di ogni persona, in particolare del debole e del povero, come già chiedeva il libro dell’Esodo (prima lettura) invitando a prestare attenzione e amore concreto agli stranieri, alle vedove e agli orfani, agli indigenti. Gesù poi apre a dimensioni di universalità questo invito di amare il prossimo abbracciando in esso anche il pagano, il peccatore, il nemico.
Un amore che prende quindi le misure dall’amore di Dio che è amore senza misura e per tutti; ma prende anche le misure dal nostro volerci bene (“amerai il prossimo tuo come te stesso”). Un’espressione questa che dice da una parte che bisogna amare il prossimo perché egli è come “un altro te stesso”. Ma invita anche ad amare con la misura del bene che ci vogliamo: non si può amare l’altro se non ci si vuole bene. Come volere il bene altrui se non si è capaci di volere il proprio bene? Agli occhi di Dio anche io sono un essere amato da Lui e non ho alcun diritto di disprezzare ciò che Dio stesso ama; anzi: solo potenziando in me l’amore di Dio, realizzando le mie capacità e i doni ricevuti, ho la possibilità, la forza di donare agli altri un amore profondo e vero.
Questo unico amore, che deve innervare tutta la nostra esistenza, è chiamato a farsi diffusivo: testimonianza prima e unica del nostro essere figli di Dio, cristiani. “Da questo riconosceranno che siete miei discepoli: se avrete amore gli uni per gli altri”. Paolo, nella seconda lettura, elogia la comunità di Tessalonica, proprio perché, con la loro vita sono diventati “modello per tutti i credenti”; “per mezzo vostro la parola del Signore risuona… si è diffusa dappertutto”.
E’ la missione affidata alla Chiesa, a ciascun battezzato. Con il Battesimo siamo stati immersi nell’amore di Dio e inseriti nella chiesa. Lì nasce il nostro essere missionari; e proprio nel vivere l’amore di Dio e del prossimo si compie questa missione di testimonianza e annuncio. Ogni giorni, in ogni luogo.
Un particolare: l’invito di Gesù è al futuro, Amerai il Signore… amerai il tuo prossimo”. Non imperativo, ‘ama’, ma futuro. Non certo per invitarci ad aspettare, un domani, quando proprio non potrò fare altro… No, affatto! E’ piuttosto  un ricordarci che l’amore è un cammino che chiede tempo, anche fatica e lotta, e amare è un’azione mai conclusa, che dura nel tempo, dura una vita intera perché della vita l’amore è il respiro vero.

sabato 21 ottobre 2017

Ventinovesima domenica del Tempo ordinario



Il racconto di oggi è un tentativo di mettere Gesù in trappola per avere di che accusarlo. Un tentativo ben organizzato e studiato (è la prima ampia parte del brano) e che si apre con una vena di ironia («Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno. Dunque, di’ a noi il tuo parere..).
Il pagare il tributo o meno diventa pretesto per  costringere Gesù a schierarsi.  Insomma tu da che parte stai?
Questa la vera questione; da che parti ti schieri: sei dei nostri oppure no? Sei per la Legge di Mosè o per i dominatori romani…
Gesù innanzitutto svela, con furbizia, la loro ipocrisia; infatti l’episodio si svolge nel Tempio dove era vietato portare immagini umane anche se coniate sulle monete (per questo c’erano i cambiavalute…). Ebbene proprio loro i puri farisei, davanti alla domanda di Gesù “mostratemi la moneta del tributo” ecco che levano di tasca ciò che non avrebbero dovuto avere. Sono proprio loro i primi a violare la norma, a seguire più che la legge di Mosè quella del dio denaro, a dire senza volerlo per chi sono schierati: per il denaro e i loro interessi.
Poi la risposta che li spiazza definitivamente e che apre un orizzonte di novità: “Rendete a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio” .
Da che parte sta Gesù? Dalla parte di Dio, che è anche la parte dell’uomo, perché il Dio che Gesù annuncia è il Dio che è per l’uomo, creato a sua immagine. Se la moneta porta l’immagine di Cesare, noi portiamo l’immagine di Dio e siamo figli suoi. Stare dalla parte di Dio è sempre stare dalla parte dell’uomo. Non è possibile altrimenti. Se sei contro l’uomo sei di fatto contro Dio; e viceversa.
E la risposta di Gesù evidenzia questo.
Ci fa capire innanzitutto che non si tratta di ‘pagare’ qualcosa, ma di ‘rendere’, restituire. Gesù usa volutamente un verbo diverso dal ‘pagare’…  Noi riceviamo tutto: la vita, la salute, il tempo, le capacità umane, intellettive, spirituali. Tutto riceviamo da Dio. Tutto rendiamo a Dio facendo della nostra vita una risposta al Suo amore, un capolavoro di relazioni, di scelte, di cose belle.
Senza Dio noi non siamo. Solo con Lui noi possiamo tutto. Perché tutto è di Dio. E tutto a Lui dobbiamo allora rendere, di tutto dobbiamo imparare a riconoscere il riferimento a Lui se vogliamo veramente realizzare noi stessi.  Del Signore è la terra e quanto contiene, il mondo e i suoi abitanti” (Sl.24); l'uomo e la donna sono dono che proviene da oltre, cosa di Dio. Restituiscili a Lui onorandoli, prendendotene cura come di un tesoro. Il creato è dono suo: rispettalo, curalo, proteggilo, restituiscilo a Lui e a chi verràin tutta la sua bellezza…
Tutto ci viene da Lui e tutto deve essere vissuto con Lui e per Lui. A Lui tutto è destinato a tornare.
Ma noi riceviamo anche da ‘Cesare’, cioè dalla società, dagli altri: pensiamo ad esempio quanto riceviamo dal lavoro di altri, ai diversi servizi che ci vengono dati per la salute, per la scuola, anche per il divertimento… Anche qui allora si tratta non di pagare, ma di rendere, restituire. Questo attraverso relazioni di solidarietà, di condivisione, di fraternità. Purtroppo oggi abbiamo ridotto tutto a denaro e a tasse, che altro non sono che un modo di restituire e collaborare a far sì che si possano offrire servizi sempre più utili e necessari. Abbiamo perso molto il senso e la capacità della condivisione e del sostegno reciproco.
Gesù dunque, con la sua risposta, invita noi oggi a entrare in una forma nuova di relazioni. Invita noi a schierarci: non se pagare o no, ma da che parte stare, se con Dio e l’uomo o sotto lo schiavizzante dominio del mercato e degli interessi privati. Ci chiama a relazioni non tanto basate sul pagare, su un rapporto tra padrone schiavo, ma piuttosto sul rendere, costruendo rapporti di fraternità-figliolanza, con Dio e con le persone. Con Dio da cui tutto riceviamo gratuitamente, come da un padre, vivendo una relazione dunque di figli che sanno rendere tutto a lui, orientando tutta la loro vita a Colui che questa vita l’ha data a noi in dono. Con gli altri riconosciuti fratelli-sorelle da cui riceviamo e insieme rendiamo, in uno scambio non di potere-dominio, ma di solidarietà e condivisione.
Da qui deriva la capacità e la forza di costruire una società più vera, giusta e fraterna.
Come siamo ancora distanti…: eppure come cristiani a questo dovremmo tendere.
Oggi la giornata missionaria mondiale ci ripropone la sfida della missione. E quale altra missione se non quella di far conoscere che la nostra vita è legata a un Dio da cui tutto riceviamo come da un padre, e che solo in lui e con lui possiamo riconoscerci fratelli capaci di collaborare per costruire un mondo più giusto?
E’ questa la bella notizia del Vangelo; e annunciare il vangelo è annunciare il primato di Dio e dell’uomo che insieme, legati da un patto di amore, collaborano a realizzare una storia più umana proprio perché più orientata a Dio e da Lui provvidenzialmente e gratuitamente guidata.

sabato 14 ottobre 2017

Ventottesima domenica del Tempo ordinario



Siamo invitati oggi a uno sguardo alto, a uno sguardo di speranza.
A lasciar risuonare tra noi le stesse parole del profeta: “Si dirà in quel giorno: ‘Ecco il nostro Dio; in lui abbiamo sperato… questi è il Signore in cui abbiamo sperato; rallegriamoci, esultiamo….”
Il nostro sguardo è invitato a posarsi sul volto di Dio per ritrovare speranza e coraggio. E qual è questo volto di Dio? “Ecco il nostro Dio…” dice il profeta. Un Dio che prepara un banchetto di festa per tutti, che vuole per tutti vita piena. Un Dio che dona e non chiede, non pretende. “Eliminerà la morte… asciugherà le lacrime su ogni volto”. E’ il Dio della vita, della gioia, della festa, della consolazione il Dio in cui crediamo e speriamo.
Credere e sperare in Lui dunque è avere uno sguardo che sa intravvedere sempre questa meta di realizzazione e di novità. E’ camminare nella vita portando nel cuore la certezza che siamo amati e accompagnati da un Dio che vuole condurci all’incontro con Lui, incontro di nozze, di gioia, dove la vita tutta trova la sua pienezza.
Gesù, nella parabola che parla del Regno di Dio -“Il Regno dei cieli è simile a…”-, riprendendo queste immagini di festa, di convivialità, di vita, vuol farci comprendere come tutto ciò riguarda non solo la meta finale che ci attende oltre questa esistenza, bensì la realtà presente, il nostro oggi dove il regno di Dio già è presente e cresce. Questo per ricordarci che la vita già ora deve esprimere tutta la sua bellezza e capacità di promuovere speranza, gioia, convivialità. Questa nostra vita, oggi deve essere già un banchetto di nozze, una festa carica di gioia e di convivialità.
L’esperienza quotidiana sembra invece smentire tutto ciò.
La vita ci appare ben altro, contrassegnata da morte, lacrime, violenza, delusione, male. Perché?
E’ forse tutto un inganno ciò che la Parola ci annuncia? Solo illusione e poesia? Hanno allora ragione quelli che dicono che la fede è qualcosa che ci estranea dalla vita e dalla realtà e che serve solo a dare una illusoria e vana consolazione?
La parabola del vangelo, con molta lucidità, ci porta a comprendere che non si tratta di un’illusione l’annuncio del banchetto di nozze. Il suo non potersi ancora compiere in pienezza dipende da noi, dalla nostra indifferenza.
La parabola, nei diversi personaggi, raffigura tutti noi che, davanti alla chiamata, più volte ripetuta, “venite alle nozze”, in modi diversi rispondiamo all’invito. E’ vero che il racconto vuole evidenziare il rifiuto del popolo di Israele, i “molti chiamati”, e la scelta degli ultimi, i “pochi eletti”, (i pagani, i peccatori, i lontani). Ma è anche vero che parlando a noi oggi il racconto ci costringe a rivedere il nostro modo di rispondere alla chiamata che Dio rivolge, a tutti e a ciascuno.
Davanti a un Dio che vuole per noi vita piena, che strappa veli di non senso e di paura, che asciuga lacrime e vince la morte, occorre lasciarci coinvolgere. Non basta sapere che Lui è così, se poi rifiutiamo di entrare in quella relazione che sola può permetterci di fare già ora l’esperienza di una vita che tende alla pienezza.
Purtroppo all’invito alla festa, all’occasione unica che può darci realizzazione e vita si accampano scuse e rifiuti..
E’ il rischio di ieri e di oggi. L’indifferenza: uno dei nemici più insidiosi e diffusi della fede, più temibile dell’ateismo e dell’opposizione aperta. L’indifferenza che porta a trovare scuse: ‘non ne ho voglia’; a pensare solo ai nostri affari: “non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari”. Indifferenti all’invito e protesi solo su noi stessi. E’ così quando pensiamo che la questione Dio e la fede in Lui, siano fattore secondario della vita, quasi un di più… se c’è tempo bene altrimenti pazienza… Quando chiudiamo la nostra vita dentro gli stretti confini di una visione materialistica, lasciando Dio ai margini.
Dobbiamo re-imparare a vivere dentro la realtà, con i piedi per terra certo, affrontando problemi e fatiche, ma pur con uno sguardo oltre, uno sguardo alto, fisso su quel Dio che, proprio dentro e in mezzo alla vita di tutti i giorni ci rivolge la sua chiamata a partecipare a una relazione d’amore con Lui, al banchetto delle nozze.
La parabola poi ci mette in guardia anche da un altro rischio. E’ rappresentato nell’immagine di colui che accetta l’invito, ma si presenta senza l’“abito nuziale”. Cosa indica questo “abito nuziale” dimenticato?. Sta a significare che costui ha risposto all’invito, ma con superficialità, senza convinzione, senza amore, senza partecipazione, con freddezza. E’ il rischio che possiamo correre tutti noi; vivere sì una relazione con Dio, ma superficiale, senza il coinvolgimento dell’amore, più per abitudine che per convinzione, senza quell’abito nuziale che è la vita nuova (la veste bianca) ricevuta fin dal Battesimo.
Dono e responsabilità dunque. In queste due parole si riassume il messaggio di oggi. Un  Dio che desidera farci dono della sua stesa vita. Noi chiamati ad aprirci con responsabilità a questo splendido dono, a non accampare scuse, a venir fuori dall’indifferenza, a liberarci da una religiosità solo apparente che alla fine soffoca la fede e ci rende privi di quell’abito nuziale che deve invece contrassegnare la nostra vita facendo risplendere in noi la novità dell’essere figli amati di Dio. 
Sull’esempio di Paolo, rimettiamoci anche noi in cammino imparando a stare dentro alla realtà quotidiana -“so vivere nella povertà come nell’abbondanza”- sapendo che “tutto posso in colui che mi dà forza”. Sapendo che Colui che ci chiama a una vita piena, alla festa di nozze, è anche Colui che, se ne accogliamo l’invito e viviamo nel suo amore, ci darà la capacità di rispondere alla sua chiamata e di realizzare pienamente la nostra vita.